Qui troverai ciò che vuoi:

giovedì 2 febbraio 2017

La luna e i falò, Cesare Pavese

La luna e i falò - Cesare Pavese
Pagine: 211
Edizione: Einaudi


TRAMA                                                                              
Il protagonista, Anguilla, all'indomani della Liberazione torna al suo paese delle Langhe, dopo molti anni trascorsi in America e, in compagnia dell'amico Nuto, ripercorre i luoghi dell'infanzia e dell'adolescenza in un viaggio nel tempo alla ricerca di antiche e sofferte radici. 


RECENSIONE                                                                   
Il protagonista di questo libro non ha nome, non ha radici, non ha una famiglia. Fin dall’inizio si presenta come un atomo solitario vagante per l’universo, che finisce per atterrare nella valle del Belbo, come per caso, più che per scelta. Qui incontra qualche suo simile, ma soprattutto elementi poco reattivi con lui. Gli viene dato un nome, Anguilla, diversi tetti sotto cui stare, ma non si sentirà mai al suo posto. È formidabile il modo in cui Pavese riesce a rendere la condizione ambigua di questo soggetto, l’espatriato, tipica figura dei suoi romanzi. L’espatriato è colui che alla ricerca di una vita migliore, del proprio posto nel mondo o semplicemente per fare fortuna si sposta dal paese d’origine e viaggia, soprattutto all’estero e nelle Americhe. Ma un giorno, spinto da un richiamo interiore, torna alla propria terra d’origine con tutto ciò che questo comporta, trovandosi a dover confrontare il cambiamento e lo spaesamento. Tale condizione richiama quella di Pavese stesso, che durante la sua vita venne condannato a tre anni di confino in Calabria con l’accusa di antifascismo. 
Il suo Anguilla è un bastardo che convive senza apparente difficoltà con questa sua natura dai tratti sfumati, indefiniti. Sembra star bene senza sapere chi l’ha messo al mondo, di che colore erano gli occhi di sua madre, qual è la sua vera terra, la sua vera casa, tutto ciò che compone il suo vero Io. Semplicemente atterra per caso sulle rive del Belbo, a Santo Stefano in Piemonte, come un piccolo uccellino incapace di volare piomba al suolo.
All’inizio del racconto egli è adulto. Lo incontriamo al momento del suo ritorno dopo aver fatto fortuna in America e compiamo insieme a lui un percorso a ritroso: l’infanzia nella famiglia adottiva, l’adolescenza nella villa della Mora con le tre belle Silvia, Irene e Santina. Soprattutto quest’ultima parte è come dilatata, occupa moltissime pagine. Le avventure adolescenziali di Anguilla sono quasi nulle, la sua realtà è scandita dal lavoro nei campi, dalla sua diligenza. La sua persona è quasi invisibile in questa parte della narrazione, si affida all’osservazione, a guardare gli altri vivere la propria giovinezza al posto di viverla lui stesso. È un personaggio  che si mantiene nell’ombra e resta sconosciuto tanto agli altri personaggi quanto al lettore stesso. Passa le sue giornate in un atteggiamento di modestia, devozione e senso del dovere; a lavorare, a svolgere i compiti che gli sono affidati. Non si capisce perché lo faccia, dato che nei suoi pensieri finisce per prevalere sempre il fascino del rumore del treno che passa, diretto verso mete sconosciute, o i sogni di uno spazio più aperto, impregnato di libertà. Le sue uniche gioie sono la visione di Silvia, il suo amore di lontano che mi ha ricordato un po’ quello del Dolce Stil Novo o l’ammirazione di Leopardi verso la giovane omonima; l’ascolto delle canzoni che Irene suona al pianoforte con le sue mani ben curate. Le due fanciulle sono una parte essenziale del racconto, pur non entrando quasi mai in diretto contatto con Anguilla, mantenendosi sempre ad un gradino di distanza rispetto a lui, che si limita a guardarle di sotto in su. L’unica idea certa che come lettrice sono riuscita a formarmi sul personaggio di Anguilla è che lui sia in realtà superiore alle ragazze, che le guardi inconsapevolmente dall’alto verso il basso, grazie al suo animo ricco di ambizione e aspirazioni di grandezza che si oppone alla superficialità e sostanziale nullafacenza delle due.  
I ricordi seguono quasi sempre l’ordine cronologico, nonostante spesso ci siano dei balzi in avanti, perché ci si concentra su quelli più vividi o su momenti cruciali. Ci sono poi flash del successivo trasferimento a Genova, delle prime relazioni con le donne, e qualche capitolo viene dedicato anche all’America, ma solo in modo fugace. Il tanto bramato desiderio di allargare i propri orizzonti viene quindi esaudito, ma non sembra essere così soddisfacente e fondamentale come sembrava: scompare nell’ombra del passato nella terra della giovinezza, che viene riscoperta nel presente.
L’espediente del ritorno dopo molti anni da parte del protagonista permette di intrecciare il filone dei ricordi alla vita presente. Tanto l’ambientazione quanto le persone vengono come ritratte in maniera speculare, com’erano e come sono.La condizione che Anguilla trova al suo ritorno viene rappresentata emblematicamente dalla famiglia stabilitasi nella casa della sua infanzia: una famiglia misera, composta da persone brutte, vecchie, deformi.  La cosa più agghiacciante è che il narratore rifiuti lo sguardo critico, a favore di un lucido tagliente realismo. Lo storpio, giovane Cinto è agli occhi di Anguilla ciò che sarebbe stato lui se fosse rimasto nel paesino, cristallizzato e immutabile come un minerale in una realtà ignorante e statica. La drammaticità del suo destino ritrae tutta la tristezza della condizione di ristagno di chi affonda le proprie radici nella povertà; esso sembra inoltre rispecchiare la crudele sorte riservata alle tre belle sorelle della Mora, come a voler dire che dall’adolescenza del protagonista, appartenente ad un tempo ormai concluso, fino all’età adulta del presente le
cose non siano cambiate. Come se le belle e ampie valli ricche di coltivazioni siano perseguitate da anni da una maledizione che si abbatte su chi non ha il coraggio di cambiare la propria vita, di lanciarsi verso un ignoto futuro migliore.
Un filo conduttore nella vita del protagonista è Nuto, prima mentore e poi amico alla pari. È un personaggio d’effetto, che si stampa nella memoria del lettore e vi resta. Ha personalità, senso della giustizia e ideali corretti in un mondo dagli orizzonti ristretti e forgiato nel pregiudizio bigotto. Pur restando sempre “nei paraggi” egli ha avuto il coraggio, seppur solo per qualche anno, di ribellarsi al destino che gli era stato riservato, ovvero quello di proseguire il lavoro del padre, e ha preferito spostarsi, cambiare continuamente la sua posizione sulla mappa grazie al mestiere di musicista. In quegli anni si è dato ad una vita libertina, fatta di frequenti notti in bianco nei campi dopo le feste di paese, continuamente spostandosi nelle cittadine circostanti come fosse il pifferaio magico con una schiera di giovani ballerini brilli al seguito.  Una vita spavalda interrotta dall’orrore e dalla crudeltà della guerra, che riporta tutti con i piedi per terra, attenti alle necessità primarie e alla sopravvivenza.
Pur nella sua semplicità, ho trovato questo libro molto denso. La sostanziale mancanza d’azione  permette di immergersi nelle profondità dell’animo umano, di indagare la bramosia che spinge nelle viscere delle persone più umili. È un romanzo, soprattutto, che mi ha trasmesso tristezza, come se la depressione di Cesare Pavese non potesse evitare di impregnare la sua scrittura. Essa traspare, in più punti, in modo velato ma percepibile: un’amarezza della vita che fa da sfondo costante. 


VOTO                                            

Nessun commento:

Posta un commento